"Nei primi anni settanta ero un ragazzetto e spesso vagabondavo
per Roma. Non smettevo mai di fare nuove scoperte, ero affascinato da
tutto: luoghi, colori, odori, gente, suoni. Frequentavo il primo anno di
liceo artistico in via di Ripetta e il pomeriggio me ne andavo per i
vicoli e poi a Piazza Navona, Campo dè Fiori, Piazza Farnese,
Trastevere. A volte vedevo passare un gigante coi capelli lunghi e neri, i
basettoni e i baffi ispidi e poi un ukulele a tracolla. Incuriosito lo seguivo
con lo sguardo; mai e poi mai avrei immaginato che alcuni anni più tardi lui ed
io ci saremmo ritrovati a suonare insieme in una band.
Per i miei
quattordici anni ricevetti in regalo dai miei una chitarra acustica che,
dopo tutto questo tempo, ancora possiedo e suono. Ero un grande
appassionato di country blues e iniziai a suonare la chitarra dobro,
una di quelle completamente metalliche. Studiavo Sam Lightnin’ Hopkins e
Fred Mc Dowell, e approfondivo la tecnica slide. Mi esibivo ovunque
fosse possibile: per la strada, nelle feste di piazza dei paesi intorno a
Roma, in qualche liceo durante le autogestioni, ospite di alcune delle
prime televisioni private romane, e poi anche nei sottopassaggi della
metropolitana appena inaugurata. Ventenne, ho suonato diverse volte al
Folk Studio, mitico locale underground romano dove, anni prima, si era
esibito un giovane e ancora poco conosciuto Bob Dylan. Ad un certo
punto, all'improvviso, ho venduto la chitarra dobro e ho abbandonato il
country blues per dedicarmi esclusivamente alla chitarra elettrica. Nel
biennio 1979-80 durante i miei giri per il centro di Roma continuavo
saltuariamente ad incrociare il gigante con l'ukulele che, con un gruppo
musicale composto da stravaganti personaggi, spesso si esibiva a Piazza
Navona. Ricordo che con lui c'erano due tipi con i capelli lunghi,
cappellaccio in testa, giacche con le frange, mocassini da pellerossa,
pantaloni di cuoio aderenti, il tutto cucito a mano con grande perizia. A
volte suonavano sulle gradinate di Piazza di Spagna davanti ad un gran
pubblico ed io, tra la gente, comodamente seduto sui gradini, mi fermavo
per ore ad osservarli ed ascoltarli. Erano veramente incredibili. Un
giorno, durante una pausa, cominciai a chiacchierare con uno di loro.
Era Paolone, il gigante. "Io suono la chitarra elettrica blues", gli ho
detto. E lui: "Capiti a fagiolo. Umba, il nostro chitarrista, si è
appena trasferito al nord: perchè non ti aggreghi a noi? Domani
pomeriggio alle tre ti aspettiamo qui, porta lo strumento e sii
puntuale." Fu così che entrai a far parte dei Wild Way: Leno Landini
all'armonica, suo fratello Frisco alle percussioni, Paolo Bencivenga
all'ukulele baritono elettrico, Massimo Bizzarri detto Bizzo,
chitarrista che saltuariamente si univa a noi, ed io, voce e chitarra
sembravamo nati per suonare assieme. A Roma ci esibivamo ogni santo
giorno e dappertutto: nei club di Trastevere e San Lorenzo, in grandi
feste all'aperto, ogni pomeriggio a Piazza di Spagna e la sera a Piazza
Navona. Una carovana di gente si muoveva con noi e dopo la musica spesso
facevamo nottata fino a vedere l'alba, momento in cui si poteva
decidere se andare ad accamparci sul lago di Martignano, a quei tempi
ancora selvaggio, incontaminato e poco frequentato.
Dopo una
lunga persecuzione nei nostri confronti da parte delle forze
dell'ordine, con grande fatica ed estenuanti trattative con la questura
di Roma e con il comando dei vigili urbani, siamo riusciti ad ottenere,
in via del tutto eccezionale, un permesso scritto, timbrato e firmato
per poter suonare nello spiazzo situato a metà della scalinata di Piazza
di Spagna. Ricordo ancora i surreali incontri nella caserma di via di
Montecatini. Tutti intorno ad un tavolo a discutere e a cercare di
trovare una soluzione all'Emergenza Wild Way. Seduti gomito a gomito,
noi, i funzionari e il comandante in capo, tutti a cercar di trovare una
soluzione. E grazie a Paolone ai suoi sorrisi e alle sue battute anche
in quei momenti difficili le polemiche erano sempre tenute lontano e si
finiva col ridere: scene da film. Alla fine i vigili urbani si
dissero favorevoli a questo permesso perchè, esasperati dai nostri
continui concerti non autorizzati all'interno della città, pensavano così di
regolamentare la nostra presenza altrimenti ingestibile e
incontrollabile. Questo episodio, così lontano nel tempo, dimostra come
non siano le giunte (che cambiano) ma le leggi e la mentalità a rendere
difficile la vita degli artisti di strada.
I nostri concerti erano
un vero e proprio evento e la domenica a Trinità dei Monti alcune
persone venivano anche dall'Umbria e dalle Marche per assistere ai nostri happenings musicali. Pioggia,
vento, gelo e afa non riuscivano a fermarci ed eravamo in grado di
suonare senza sosta anche per più di sei ore mettendo a dura prova mani, dita,
polmoni e circuiti degli amplificatori. Ricordo un concerto sotto la
pioggia battente suonato al riparo degli ombrelli del pubblico che, in
piedi accanto a noi, ascoltava mentre ci riparava dalla pioggia: scena
incredibile e a suo modo commovente. L'estate partivamo per avventurosi ed
estenuanti viaggi durante i quali si attraversava l'Europa in lungo e
in largo: Danimarca, Svezia, Norvegia, Germania, Olanda, Francia,
Spagna, Portogallo. Paola e Mirella sempre con noi. Spesso venivamo
ospitati da persone conosciute lì per lì, come a Kassel in
Germania, a Goteborg in Svezia, e ad Oslo in Norvegia. In Italia la
stampa alternativa qualche volta si interessava a noi e la rivista Frigidaire
ci definì "un gruppo di musicisti ambulanti che suona un rock blues
dalle tinte vagamente psichedeliche." Ogni tanto qualche sedicente
manager, dopo aver assistito ad una nostra performance, si faceva avanti
presentandosi con grande entusiasmo: "Ragazzi siete pazzeschi, voglio
lanciarvi in grande stile!" Ma queste promesse erano sempre e solo
vaneggiamenti in libertà. Alla fine del 1989 entriamo in crisi:
stanchezza, dissapori, insoddisfazioni e totale mancanza di
riconoscimenti concreti (che per la verità, forse sbagliando, non
avevamo mai cercato) ci convincono a fare una pausa per riflettere un pò
e pensare ad una possibile evoluzione. E' il 1990 e ognuno di noi
continua a suonare per conto proprio. A volte ci riuniamo per qualche
serata, ma non come Wild Way. Paolo, sensibile e nostalgico, tenta più
volte di riformare la banda ma non c'è nulla da fare. Dopo lo
scioglimento del gruppo è l'unico col quale io rimanga giornalmente in
contatto. Nelle calde notti d'estate lui ed io girovaghiamo e ovunque la gente ci accoglie a braccia aperte: Paolo conosce tutti e tutti gli vogliono
bene. Poi, tragicamente, muore, lasciandoci sconvolti e senza parole.
Anche se i Wild Way si fossero un giorno riuniti, senza Paolone non
sarebbero più stati gli stessi perchè il suono del suo ukulele e le
melodie che riusciva a tirar fuori da quello strumento erano uno dei
marchi di fabbrica della band. Di questo originale e carismatico gruppo
esistono centinaia di foto ma pochissime testimonianze sonore: tre o
quattro brani registrati in sala prove con tecnica rudimentale e ore ed
ore di registrazioni di concerti all'aperto effettuate da Leno che
intelligentemente aveva sempre un walkman con sè. Esisteva una
videocassetta di un concerto in Umbria del 1989, ma ho saputo che
questo nastro è stato sciaguratamente cancellato. Peccato, sarebbe
stato bello rivederci a quei tempi, con Paolone tra noi, e tutti gli
altri.
Wild Way a Piaaza di Spagna nel 1983 |
Sono certo che all'epoca la portata culturale dei Wild Way non
sia stata compresa. Così come è stato sottovalutato il loro contributo
sociale. Unico gruppo musicale italiano itinerante attivo nelle piazze e
nelle strade di tutta Europa i Wild Way hanno avuto il torto, secondo
alcuni, di essere totalmente fuori dalle regole dello show business.
Nessun manager, agente o discografico si è mai sognato di promuoverci e
se abbiamo avuto un seguito, un pubblico entusiasta e fedele, è stato
solo grazie alla nostra capacità di coinvolgere l'ascoltatore. Alcune
persone hanno pensato che la strada fosse per noi un ripiego, un'ultima
spiaggia, l'unica alternativa per chi non è accolto nei circuiti
ufficiali. Altri hanno detto che musicisti così bravi erano sprecati a
suonare nelle piazze. Ma essere musicisti ambulanti è stata una scelta
ben precisa dettata dalla necessità di stare sempre in movimento e di
non sottostare a niente e a nessuno. Il mondo, poi, ci sembrava troppo
vasto e interessante per poltrire in una città sonnacchiosa e
conformista come Roma.
Un giorno del 1983, durante l'ennesima partenza da Roma e appena entrati in Umbria, lungo la strada due volanti della polizia ci seguono e ci fanno cenno di accostare. Gli agenti, insospettiti dalla vecchia Ford che avanza a fatica sotto il peso del portapacchi stracarico, non vedono l'ora di sapere chi siamo, dove siamo diretti e perchè procediamo a soli 40 Km orari su di una strada secondaria completamente deserta. Al volante c'è Paola perchè nessuno di noi musicisti ha la patente. Ci seguono in moto Paolone e Mirella. Alla domanda degli agenti rispondiamo in maniera corale ed entusiasta: "Dove andiamo? Ma in Norvegia!!!!" I poliziotti, simpatici e cordiali, scoppiano a ridere e ci dicono che in quelle condizioni non saremmo giunti nemmeno a Spoleto. Tempo due settimane ed eravamo a Oslo.
1986 |
Un giorno del 1983, durante l'ennesima partenza da Roma e appena entrati in Umbria, lungo la strada due volanti della polizia ci seguono e ci fanno cenno di accostare. Gli agenti, insospettiti dalla vecchia Ford che avanza a fatica sotto il peso del portapacchi stracarico, non vedono l'ora di sapere chi siamo, dove siamo diretti e perchè procediamo a soli 40 Km orari su di una strada secondaria completamente deserta. Al volante c'è Paola perchè nessuno di noi musicisti ha la patente. Ci seguono in moto Paolone e Mirella. Alla domanda degli agenti rispondiamo in maniera corale ed entusiasta: "Dove andiamo? Ma in Norvegia!!!!" I poliziotti, simpatici e cordiali, scoppiano a ridere e ci dicono che in quelle condizioni non saremmo giunti nemmeno a Spoleto. Tempo due settimane ed eravamo a Oslo.
Voglio
raccontare e quindi tramandare un episodio che, seppur autentico, ha
qualcosa di romanzesco. Due del mattino, Paolone pizzica le corde del
suo ukulele seduto sulle gradinate deserte di Piazza di Spagna quando un
tizio con la chitarra in spalla gli chiede se può unirsi a lui. I due
cantano e suonano per più di un'ora illuminati dalla fioca luce dei
lampioni. Qualche fortunato testimone si aggrega battendo il tempo con
le mani. Purtroppo nessuno ha un registratore e tanto meno una
videocamera ma non importa, quello che conta è l'irripetibilità del
momento: la musica scaturisce libera, fluida, avvolgente e non c'è
bisogno d'altro.
E per questo Paolo, con estremo riserbo, non parlava mai di quella notte in cui lui e Bruce Springsteen suonarono insieme."
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